Uno degli aspetti più incredibili del Cile è che una buona parte dei suoi territori settentrionali, oltre ad essere nota per la sua bellezza paesaggistica e quindi rinomata meta turistica, rappresenta un vero e proprio stendardo economico per l’intero paese grazie alle enormi risorse minerarie e metallifere che la contraddistinguono. Metalli e minerali, due realtà che già dalla seconda metà del XIX secolo avevano iniziato ad attirare menti europee in cerca di fortuna e pronte a sfruttare il potenziale minerario di molte aree del deserto di Atacama. Da quei tempi, in cui la fortuna dell’industria mineraria ruotava attorno al salnitro, le cose non sono cambiate. L’estrazione di molti minerali e metalli continua a rappresentare una delle principali fonti economiche del paese. Oltre a ferro, molibdeno, piombo, zinco, oro, argento e carbone, la cui estrazione è ancora diffusa nella parte meridionale del paese, due sono i metalli che occupano la maggior parte delle attività di estrazione cilena. Parlo del Rame, di cui il Cile è il primo produttore al mondo, e del Litio, di cui il paese detiene il primato di esportazione. Circa un terzo del PIL nazionale deriva dalle attività di estrazione, produzione ed esportazione di metalli e minerali. Con 8 milioni di tonnellate, il Cile ha le maggiori riserve di litio a oggi conosciute, poi vengono l’Australia, che con 2,7 milioni di tonnellate detiene il primato di produzione, l’Argentina con 2 milioni e la Cina con 1 milione. I magnifici colori del deserto di Atacama nascondono quindi un enorme potenziale minerario, quasi il 30% delle riserve mondiali stimate di Litio.
Ma, perché preoccuparsi tanto del litio e del rame? Grazie all’elevata conduttività e alla capacità di immagazzinare energia, l’enorme e crescente richiesta del famoso metallo alcalino è legata al fatto di essere il metallo utilizzato per la maggior parte delle batterie, dagli smartphone ai veicoli elettrici e, quindi, considerato estremamente prezioso. Grazie alla sua ottima conduttività termica e conducibilità elettrica, il rame, presente in natura quasi sempre sotto forma di minerali, trova da sempre largo impiego nella produzione e utilizzo dell’energia elettrica e in impianti basati su scambio termico.
Dopo queste considerazioni sembrerebbe che questo enorme potenziale abbia solo un riscontro positivo e che rappresenti quindi una risorsa in grado di assicurare prosperità e sicurezza al paese. Ma…è davvero così? A dire la verità no, non è così. A mio parere, ci sono due aspetti fondamentali da considerare e che rappresentano conseguenze dirette dell’attività di estrazione a pieno ritmo. Parlo della stessa natura e qualità delle risorse di cui stiamo parlando, enormi, certo, ma pur sempre esauribili, e dello sfruttamento e inquinamento ambientale.
Tralasciando i normali rallentamenti dell’attività mineraria dovuti alla pandemia di Covid-19 e al previsto aumento del prezzo del rame in seguito alla crescita della sua domanda da parte del settore automobilistico e dell’energia rinnovabile, i perni attorno ai quali gira l’offerta del metallo sono rappresentati dalla disponibilità in natura e dal suo grado, cioè dalla sua concentrazione. L’enorme disponibilità del metallo sembra non preoccupare le grandi imprese minerarie attive nel territorio settentrionale, responsabili di una produzione che, nonostante una continua diminuzione registrata durante il periodo pandemico, hanno mantenuto un ritmo di lavoro sostenuto. Ciò che invece rappresenta un problema è il grado del metallo registrato in diverse realtà minerarie, diminuito dall’1 al 0,6-0,7% negli ultimi anni. Questa riduzione è sinonimo di aumento dei costi di produzione di rame raffinato e causa di un allungamento del processo produttivo e quindi, di un’offerta sempre più in ritardo rispetto alla tabella di marcia del mercato. Un generale invecchiamento qualitativo delle miniere a cielo aperto cilene che si sentono sempre più costrette ad operare in profondità e sottosuolo.
La speranza e le previsioni delle compagnie minerarie trovano sicurezza nell’enorme disponibilità del metallo prezioso di cui gode il Cile e nell’impiego di migliori tecniche produttive che possano garantire una produzione in crescita e che riescano quindi a compensare questo deficit qualitativo.
Rimane poi da considerare il risvolto ambientale, una conseguenza diretta dell’estrazione mineraria, soprattutto nel caso del Litio. Sono ormai decenni che il Cile si ritrova tra due antichi sfidanti: l’interesse economico e la tutela ambientale. Il problema ambientale risiede infatti nelle location scelte per l’estrazione del metallo alcalino, che spesso appartengono a riserve o parchi naturali di indescrivibile bellezza paesaggistica e che quindi rappresentano o posso rappresentare delle mete turistiche straordinarie e uniche al mondo. Le realtà soggette ad estrazione sono spesso infatti i famosi salares, i grandi laghi salati che contraddistinguono l’area del cosiddetto “Norte Grande”, la regione cilena più settentrionale, in pieno deserto di Atacama, come anche in molte aree occupate da riserve naturali prossime al grande deserto cileno, in territorio boliviano o argentino.
Il Salar de Atacama
A parte la relativa semplicità di produzione del famoso metallo alcalino, tramite attività mineraria o tramite “salamoia delle saline”, la spietata attività di estrazione ha due dirette conseguenze ambientali, danni collaterali nocivi sia per l’ambiente sia per popolazione indigena locale che da decenni rappresenta un valido baluardo contro lo sfruttamento ambientale. Mi riferisco alle enormi quantità di CO2 prodotte e all’evaporazione dell’acqua in loco, risorsa di primaria importanza per le comunità indigene agro-pastorali del grande altopiano atacameño e in generale per tutta la popolazione cilena concentrata nella regione settentrionale. L’acqua presente nei laghi salati sotterranei viene portata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche, operazione che rappresenta una prima parte del processo di produzione e che nel corso dei decenni ha comportato un graduale danneggiamento dei salares, causando un progressivo prosciugamento delle loro zone umide ai margini delle grandi distese di sale, come anche di fiumi e falde acquifere locali. L’estrazione idrica indiscriminata colpisce direttamente le comunità che devono affrontare gravi problemi di approvvigionamento idrico per l’agricoltura, la pastorizia e il turismo locale, comportando la nascita di conflitti e instabilità sociali.
Secondo gli studi dell’Università di Antofagasta in Cile, per ogni tonnellata di minerale estratto sono necessari due milioni di litri di acqua, rimasta nel sottosuolo per milioni di anni.
L’intensa attività di estrazione è quindi la causa della nascita di gravi squilibri idrici e sociali e ipotizzare una soluzione a tale contesto non è per niente semplice. Nonostante la questione sia ben nota a livello giuridico e governativo, le prime e uniche realtà a lottare attivamente contro il fenomeno sono, come già accennato, le diverse comunità indigene che dimorano nel grande deserto di Atacama, Atacameños, Lickanantay, Colla, Quechua e Aymara, realtà sensibili al fenomeno e che, come me, si sentono responsabili e in dovere di diffondere la vera natura della realtà mineraria ed estrattiva attive in questo paradiso naturale, nella grande speranza che si proponga e si raggiunga presto una soluzione più green e migliore per tutti.
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